- Urăsc pe Popescu. E dușmanul meu.
Una delle prime volte che credo di aver sentito la parola “dushman”* ero in un’incantevole città montana della Romania. Popescu, un nome di fantasia (lo so, non ne ho usata molta per chiamarlo Popescu) era un vicino particolarmente invadente e irrispettoso delle regole di buon vicinato. Popescu aveva appena spostato la staccionata del giardino di un paio di metri per ingrandire il suo giardino. Pochi mesi prima, dicono, aveva avvelenato il gatto e, poco dopo (ma a questa storia proprio non credo), aveva fatto trovare un orso nel giardino.
- Ce înseamnă “dușman” (che significa dusman) – chiedo nel mio rumeno allora titubante?
- Nemico, come i russi, i bozgori (termine dispregiativo riferito agli ungheresi), come i turchi.
I turchi, uno dei nemici storici della Romania, quelli impalati da Vlad Țepeș.
La seconda volta che ho incontrato questo “nemico” ero seduto sul divano della casa in affitto a Bruxelles, dopo l’ennesima sbornia. Guardavo Underground, di Kusturica, in serbo. Nel film il душман (dushman) sono prima i tedeschi poi, negli occhi confusi di un grandissimo Lazar Ristovski, i croati. Nella storia serba, prima di allora c’erano stati ancora loro, i turchi, con la famosa battaglia di Kosovo Polije, uno dei non frequenti casi di epica nazionale che trae le origini da una sconfitta.
Un paio di anni dopo, mi trovo a visitarlo questo nemico, il “dushman”, i turchi. Tornare a visitarlo in realtà.
- Due biglietti per Lesbo – dico al corpulento signore della biglietteria dei traghetti di Ayvalık.
- passaporto, per favore – mi risponde in un mix di turco e inglese.
Ma come, il passaporto anche per comprare i biglietti? Mi chiedo, mentre estraggo dal mio marsupio il mio stropicciato passaporto.
lo osserva girando le pagine ad una ad una, poi esclama: Car!
- Yes, I have a car
- You, Greece with car?
- No, no car, we’re going for just one day
- You must car
- Why?
- With car turkey you enter, with car exit you must
- Yes, master Yoda, in Turkey car I will not leave – gli dico scherzando sulla sua sintassi.
Il timbro a forma di macchina sul passaporto è la mia condanna: sono entrato in macchina, devo uscire in macchina. Per prevenire importazioni illegali, non posso lasciare il paese se non con la macchina con la quale sono venuto.
Provo a protestare, a proporre soluzioni fantasiose, arrivo persino a proporgli di lasciargli le chiavi della macchina, ma non funziona.
- where you from?
- Italy
- Ah, Italian, next time don’t give Dodecanese to Dushman, the Greeks and you not need passport.
All’esito della guerra italo-turca del 1912, l’Italia aveva occupato le isole del dodecaneso, che passarono alla Grecia (con insoddisfazione turca) nel 1947.
Оk, I apologize, I didn’t do it on purpose. I won’t give them to the Greeks next time, may the force be with you – dico mentre mi allontano frustrato.
Fu in quel momento che mi resi conto che molte delle popolazioni che erano state soggiogate dagli ottomani usavano una parola presa dagli ottomani stessi per descrivere il loro nemico. Nemico, pensavo. L’uomo, per me, non nasce nemico di un’altro uomo. Alla base di un nemico c’è sempre un bisogno: una terra, una risorsa, una donna, un confine… Quella di nemico è una condizione acquisita, non di nascita. Quindi non è sorprendente che tanti popoli della zona abbiano preso la parola “nemico” proprio dal nemico.
Credevo che la storia fosse finita lì. Ma anche i turchi hanno avuto i loro nemici. Pochi anni dopo, infatti, mi trovo alla frontiera di Meghri, in Iran, porta d’ingresso della meravigliosa valle di Aras. Ho appena finito i controlli per lasciare l’Armenia e, con un mio amico, ci apprestiamo a svolgere le interminabili pratiche burocratiche necessarie per entrare nello stato che fu l’antica Persia.
L’ingresso nel paese via macchina è piuttosto complesso, tanto che ci siamo rivolti ai servizi di Hassan, un facilitatore. Grazie a lui l’attesa dura solo circa cinque ore, durante le quali ho il tempo di guardarmi attorno e provare ad avere delle conversazioni più che altro a gesti con le altre persone in attesa del loro destino alla frontiera. Nel guardarmi intorno non posso fare a meno di notare che tutto è scritto nel loro alfabeto e nella loro lingua, tranne due scritte in inglese: “I am a revolutionary” e “Down with England”
Provo a chiedere al mio vicino d’attesa il perché dell’odio verso gli inglesi, arrabattandomi con gesti e parole semplici e la sua risposta mi lascia sorpreso: “Mister, Dushman“.
Anche gli iraniani usano dushman per descrivere il nemico. Per quanto mi è dato intendere, l’origine della parola dushman è proprio persiana. Sono i turchi che l’hanno presa da loro, insieme a molte altre parole. Avendo del bel tempo da attendere, fantastico pensando ai viaggi che le parole hanno fatto nella storia. In questo caso seguendo gli eserciti dalla Persia alla remota Serbia, passando per Turchia e Romania. Immagino parole in marcia da un paese all’altro. Parole che si sposano con altre parole e fanno figli paroline con i tratti dell’una e dell’altra ma un significato lievemente diverso. Parole che sottomettono ed eliminano altre parole, parole che ritornano al loro paese d’origine, cambiate e non più riconoscibili. Migrazioni storiche di parole e Salvini che cerca di fermarle. Parole che compongono altre parole, Parolo, il giocatore della Lazio (non so perché i miei pensieri prendono sempre pieghe bizzarre).
Pochi mesi dopo, mi trovo a guardare con dei colleghi un deludente film di Bollywood. Verso la fine del film, prima dell’ineluttabile coreografia di gruppo, mi imbatto nuovamente nella parola Dushman, che a quanto pare ha viaggiato anche ad est, interessando anche l’ Hindi, e constato che la parola ha fatto un viaggio comparabile all’impero di Alessandro Magno.
Ma non è l’unica parola che mi colpisce. Nel film, una stucchevole commedia romantica, viene ripetuta a più riprese la parola “Januu“, che deve essere qualcosa come amore mio. Praticamente, insieme a dushman, è l’unica cosa che mi resta impressa dell’intero film.
Pochi giorni dopo, a cena con Mahtab, una ragazza iraniana, ed Emma e Lisa, le mie ultrà di fiducia del cinema bollywoodiano, inizia una discussione sul termine Januu che Mahtab nota essere molto simile all’iraniano “jaanam/joonam” (che significa “vita mia” (oi core e chistu core). Ho un’illuminazione: avendo da poco iniziato a studiare il turco, mi rendo conto che il termine assomiglia a sua volta tremendamente a “canım“, turco, più o meno “cara mia” . Ed in effetti, l’hindi e il turco hanno entrambe preso il termine da “jân”, persiano. A quanto pare, la Persia è una specie di hub linguistico (e non solo) per la zona, ed ha prestato svariati termini a Turchia e India e, di riflesso, per effetto delle conquiste ottomane, ai balcani. Ah, gli iraniani, mai visto un popolo più cordiale.
E a onor del vero, non hanno passato solo la parola “nemico” con gli eserciti. Quando non è il nemico, il turco è il vicino: la parola “vicino” in Turco è “komşu“, in serbo, come apprendo guardando “Rane”, violento film serbo, è “комшија” (komšija),
Nella metro a Teheran, in mezzo a parole incomprensibili ed esotiche, improvvisamente ascolto, in un annuncio, la familiare parola “Misafir“, viaggiatore/passeggero (che ovviamente esiste anche in turco) e che mi ricorda il rumeno “musafir“, ospite.
La storia dei contatti tra questi popoli non ha lasciato in eredità solo queste parole: grazie al mio noto amore per il cibo, scopro che anche le ricette hanno viaggiato svariati chilometri: per esempio i famosi Köfte (in Turchia), Kofta (in India e in gran parte del mediterraneo arabo), Chiftelele (in Romania), кюфте/kyufte (in Bulgaria), anch’essi derivati da una parola persiana.
Mi perdo ad immaginare rinomati chef che, al seguito delle corti, si spostano da un paese all’altro creando un continuum culinario. So che probabilmente non è andata così, ma mi piace pensarlo.
E poi la musica, altra mia passione: sono tantissime le canzoni popolari che sono comuni a tutta l’area turco balcanica (qui la Persia non c’entra, ma le armonie che ho sentito in Persia, comunque le richiamano molto) come dimostra questo interessante film/documentario. Nel film vari amici di diversi paesi dell’area sono seduti attorno a un tavolo ad Istanbul, quando sentono cantare in turco una melodia popolare. Tutti la riconoscono come originariamente loro, scritta nella loro lingua. Da lì la ricerca per capire di chi è effettivamente la canzone. Dai ritmi e le fanfare che hanno viaggiato al seguito dalle bande dell’esercito ottomano e che influenzano le classiche bande di ottoni balcaniche diventate ormai molto familiari agli strumenti, le sonorità, le scale, comuni un po’ a tutta l’area, esiste un continuum di influenze musicali. Scoprirle mi rende viaggiare in questa immensa area ancora più bello e interessante.
Scopro che, affascinato da sempre dalle lingue, sto facendo due viaggi: quello mio presente e, a ritroso, quello fatto dalle parole in chissà quanti secoli.
Ecco, questo blog, parla principalmente di viaggi e parole. Di come mi sono imbattuto in alcune parole durante i miei viaggi, per scoprire che certe parole hanno viaggiato più di me. Le parole sono lo spunto per descrivere scorci dei posti che ho visitato e per raccontare qualche ricordo più o meno divertente, parlare di qualche poeta, musicista, artista che ho conosciuto in viaggio e ancora allieta la mia vita. Ogni tanto, a seconda dell’aneddoto da raccontare, mi avventurerò, come nel prossimo articolo, scherzosamente e atecnicamente, nel mondo del diritto, altro tema che movimenta la mia vita o in temi off-topic che mi va di scrivere.
* Siccome la parola può essere scritta in più modi a seconda della lingua di riferimento, ho scelto di utilizzare Dushman come trascrizione fonetica