Non soffro particolarmente l’acqua fredda. Mi trovo a mio agio nell’oceano portoghese come nel mediterraneo. Posso entrare velocemente nell’oceano gelato e rimanerci ore.
Eppure, per entrare in acqua al Guincho, seguo il rituale dell’entrata in acqua dell’italiano dopo la parmigiana di melanzane. Prima i piedi, poi pian piano le gambe, poi spalmo lentamente l’acqua sulla pancia e sulla schiena come fosse crema solare.
Al Guincho le onde sono di dimensione variabile e imprevedibile. Così, per rispettare il rituale, bisogna esibirsi in salti da canguro per non vanificare il complesso rito preparatorio.
Questo almeno finché non arriva l’onda di tre metri, quella che so di non poter saltare. In quei tre secondi che mi separano dall’onda realizzo che il rituale altro non è che l’attesa di quell’onda.
Attesa del brivido dì non poter evitare di abbandonarmi, del breve istante in cui ho coscienza del fatto che tra un attimo sarò travolto, sarò entrato in acqua.
La sensazione di freddo arriva un attimo prima che arrivi l’onda: prima che l’onda mi tocchi sento già il brivido.
L’attesa dell’inevitabile, per quei pochi secondi mi procura il piacere e il dolore di entrare in acqua prima di entrare in acqua. Ma quei secondi sono molto più intensi dell’istante stesso in cui finalmente entro. Mi piace entrare in acqua con calma, con minuzioso rituale. Mi piace, in generale, in più di un ambito (ma non in quello delle file), agire con lentezza, creare attesa e godermela finché non è più possibile attendere, finché l’onda arriva e bisogna abbandonarsi. Cosa che spesso non viene compresa o scambiata per codardia da chi non sa attendere.
Eppure potrei semplicemente tuffarmi in acqua di getto, di testa, in un secondo. Non soffro particolarmente l’acqua fredda.