Un mercato perfettamente concorrenziale è ritenuto consentire un’allocazione ottimale, paretiana, delle risorse, con vantaggi per l’intero sistema. Di qui l’intervento dello stato per assicurare quanto più possibile condizioni ottimali di concorrenza, e di qui l’intera storia delle legislazioni anti-trust.
Sono rari, tuttavia, nel mondo reale, qualcuno sostiene inesistenti, i mercati perfettamente concorrenziali. Eppure io sono sicuro di averne visto almeno uno: il mercato delle bacinelle di birra tra Piazza San Domenico e Piazzetta Nilo a Napoli, molto attivo alla fine degli anni novanta/inizio dei duemila.
Questa idea mi era balenata una sera intorno al 2001 in piedi, fermo davanti alla bacinella, lo sguardo nel vuoto tipico di quando ho qualche intuizione o presunta tale. Vedendomi immobile e pensieroso davanti alla bacinella, il venditore mi aveva risvegliato esclamando: “Dottò, spustateve ca me cuprite ‘a vetrina“. Vediamo, questo mercato è perfettamente concorrenziale? Check-list:
Bene omogeneo: √ (La birra: Peroni e Heineken 66cl)
Informazione completa: √ (tutti sanno dei costi dell’altro)
Imprese “price-taker”: √ (le bacinelle erano ad ogni angolo)
Assenza di barriere all’ingresso: uhm… ok, questo forse no…
In ogni caso, al momento dell’ingresso dell’Euro, grazie a questo meccanismo concorrenziale ben funzionante, il prezzo di una Peroni grande era passato da 2000 lire a 1 euro, una diminuzione, in controtendenza rispetto alla percezione generale in quei concitati giorni.
Il diritto della concorrenza mi era tornato in mente a Zanzibar di fronte a un altro mercato che aveva caratteristiche molto simili. Ma ci arrivo per gradi, mi piacciono le digressioni. Aeroporto di Zanzibar.
- Dove va quell’aereo? – mi chiede un signore dal chiarissimo accento bergamasco.
- Mwanza
- è a Dar-es-Salaam?
- No, nel nord, vicino al lago Victoria
- E questo, va a Dar-es- Salaam?
- No, questo va a Dodoma, conosce? quella di Dodoma e Gomorra (dico mentre il signore mi fulmina con lo sguardo)
- Senta, mi può avvisare quando imbarcano l’aereo per Dar-es-salaam?
- Certo, ma non si preoccupi, lo speaker annuncerà volo e porta.
- Ecco, vede, il mio problema è che non parlo inglese. L’anno scorso dovevamo prendere un aereo da Zanzibar a Dar-es-salaam (un volo di 20 minuti) e per sbaglio ci siamo imbarcati in uno per Moshi (alle falde del Kilimanjaro, ben più lontano). Mia figlia a un certo punto mi dice: guarda, papà, il Kilimanjaro e io: e che ci fa lì? Ritornare a Dar (come la chiamano i locali) è stato un incubo.
Non mi chiedo nemmeno come ciò sia stato possibile, perché mi viene subito in mente una storia del mio amico Juan, che viaggiava l’Africa per una società di energia solare. Una volta, su un volo Mauritania Airlines in partenza da Nouakchott, aveva visto un uomo magro, sulla quarantina, con la camicia aperta sbracciarsi e gridare qualcosa in mauritano appena l’aereo aveva iniziato il rullaggio. Spaventato aveva chiesto: “che succede?” al passeggero affianco. “Niente, vuole scendere, era solo salito per accompagnare la cognata. Non deve mica andare a Dakar“, gli aveva risposto tranquillo come se l’intera scena fosse normale.
L’aeroporto di Zanzibar si presta (o almeno si prestava all’epoca della mia visita) a questo genere di equivoci. Ai controlli, una vecchia bilancia italiana, concepita probabilmente negli anni sessanta per pesare gli ortaggi, è utilizzata per pesare i bagagli. Una volta passati i controlli si attende tutti in una saletta spoglia, ornata solo da alcune sedie di plastica. Nessun tabellone ad indicare i voli. Bisogna ascoltare lo speaker che, come tutti gli speaker di aeroporti e stazioni, parla mangiando il microfono. La porta per accedere alle piste è aperta e, teoricamente, chiunque potrebbe camminare fino a un aeroplano a caso e imbarcarsi, visti i controlli quantomeno superficiali.
Appunto quanto era avvenuto alla simpatica e coraggiosa famiglia di Bergamo, che non si era lasciata scoraggiare da quell’episodio e continuava a viaggiare in Africa.
Il volo è breve, ma io che sono terrorizzato dai voli in generale non riesco a star tranquillo su un bi-elica per 20 passeggeri di una non troppo nota compagnia aerea Tanzana.
E’ il mio primo viaggio in Africa e sin dall’organizzazione si palesa la mia mancata conoscenza del continente. L’atterraggio è a Nairobi, ed ho calcolato massimo 4 ore per il tragitto da Nairobi ad Arusha (sede del Tribunale Internazionale per le atroci vicende del vicino Ruanda). In fondo sono poco più di 300 km. Ce ne mettiamo 12. La strada è piena di buche. Quando non buchiamo noi ci fermiamo ad assistere altri veicoli impantanati o con la ruota a terra. Quando arriviamo? Chiedo. Pole Pole (piano piano), mi rispondono.
Pole Pole e Hakuna Matata (più o meno, niente problemi) sono le parole più ricorrenti nel corso del viaggio africano.
- Quando arriviamo?
- Pole Pole
- Quando apre il tabaccaio?
- Pole Pole, hakuna matata (erano le undici del mattino nel villaggio e mi ha detto che probabilmente dormiva)
- Perché l’autobus è partito 10 minuti in anticipo?
- Hakuna matata, sono già saliti tutti non vale la pena di aspettare (che fa da contraltare ad un altro in cui abbiamo aspettato 30 minuti perché ancora non pieno. Pole, pole, hakuna matata).
Prima di arrivare a Zanzibar, teatro del mio nuovo incontro con la concorrenza, visitiamo il Serengeti. L’aspetto più intrigante della visita è l’alloggio: in tenda, in mezzo al parco, senza recinzioni, con gli animali che passeggiano di notte affianco alle tende.
Il masai ci raccomanda: – Se vedete occhi rossi, rientrate in tenda è un leone. Se vedete occhi azzurri, rientrate è una iena. Se vedete occhi verdi, rientrate è un leopardo.
Lo interrompo: – Dotto’, e se vedo degli occhi gialli?
- non ci sono animali con gli occhi gialli
- Vabbuò, ma io per sicurezza rientro lo stesso.
Dopo svariate notti insonni in cui ho imparato i versi di qualsiasi animale, riuscendo ormai anche a distinguere dal verso il sesso della iena, la sua dimensione, le sue preferenze politiche e la sua squadra del cuore, arriviamo finalmente a Zanzibar.
Nella spiaggia di Jambiani non è che succedano molte cose e l’unica che rompe la monotonia è qualche ambulante che vuole vedere qualche souvenir e almeno una ventina di tipi diversi che ci vogliono offrire una gita in barca nella zona.
Per tutti la loro escursione è senza dubbio migliore di quella che offrono gli altri. Theirs is no good. Bad equipment for snorkeling, bad food, the boat, oh.. the boat is crap, it will sink, you will die (ad occhio non ci sono limiti alla pubblicità comparativa…). La difficoltà, a volte, è capire il prezzo che vogliono proporre perché l’accento swahili delle zone costiere e dell’isola li porta ad aggiungere un’inutile “i” accessoria alla fine della parola. Per cui “eight“, otto, diventa “eighty“, ottanta.
Non ci facciamo infinocchiare. Pochi anni prima avevamo vissuto, in Messico, la stessa scenetta. 40 barcaroli che offrono il viaggio, migliore di quello degli altri, salvo poi scoprire, una volta partiti, che tutte e quaranta le barche fanno lo stesso giro e vanno a mangiare nello stesso ristorante. Per fortuna, in Messico, sfruttando la forte concorrenza ed aspettando fino all’ultimo minuto avevamo spuntato un ottimo prezzo. O meglio, noi lo avevamo fatto. Per effetto dell’asimmetria informativa, i nostri vicini americani avevano pagato circa il triplo.
I barcaroli di Zanzibar stavano sfruttando l’asimmetria informativa cercando, al pari dei loro colleghi Messicani, di differenziare (falsamente) il prodotto per ottenere una marginalità più alta. Noto, però, che a differenza di quanto avvenuto in Messico, non riesco a spuntare un prezzo particolarmente vantaggioso. Mi areno a sixy (che, avrete capito, ormai, non è sixty ma six).
Sotto a quel prezzo, per qualche motivo, nessuno è disposto a scendere. Scoprirò, poco dopo, che in realtà esiste un cartello dei barcaroli, che ha stabilito una tariffa minima, un po’ cara, ma tutto sommato fattibile anche per le mie tasche dell’epoca. Al momento di scegliere il barcarolo, ci orientiamo verso quello che appare più gentile, gioviale e sorridente e che, nel presentarsi, ci offre uno snack e delle caramelle.
Finito il giro (inevitabilmente uguale, in ogni aspetto, snack a parte, a quello di tutti gli altri), sento un mormorio tra gli altri barcaroli. Dimostrando una limitata conoscenza dell’antitrust, si lamentano delle “pratiche commercialmente scorrette” dell’altro barcarolo, che accaparra clienti con metodi immorali, indecenti. Dicono che bisogna fare qualcosa, perché sta “rovinando il mercato”. Trattenuta la tentazione di propormi come autorità garante della concorrenza dei barcaroli di Jambiani (non sarebbe un brutto mestiere col senno di poi), cerco di stemperare un poco gli animi suggerendo di utilizzare anche loro delle gentilezze con i potenziali clienti e noto come un meccanismo concorrenziale, anche in embrione in quello che di fatto è un oligopolio, effettivamente spinge i competitor a migliorare i servizi a beneficio dell’utente. Lasciando Zanzibar mi chiedo delle sorti del barcarolo gentile: lo avranno ostracizzato ed allontanato dalla comunità, o gli altri barcaroli hanno avuto un incentivo a migliorare il servizio e differenziare davvero il loro prodotto? E soprattutto, avranno ancora bisogno di un garante? Nel caso a ‘sto giro mi candido.
- L’aereo per Dar-es-Salaam è questo, mi segua.
- Grazie, lei dove va, una volta a Dar? sa non vorrei perdermi – mi dice mentre l’aereo volteggia su Zanzibar, sorvolando un mare turchese, popolato da Dhow, uno dei quali, chissà, è del barcarolo gentile.